Il cappellaio di Urmak


  Recensioni

"Astra" (gennaio 2002)
Il cappellaio che non si arrende alla moda e al riparo da occhi indiscreti perfeziona una sua misteriosa idea di copricapo. I minuscoli custodi dei libri, "alti un fiammifero", che salvano il protagonista da un incendio. Il correttore di bozze che vive i testi che passa e ne esce trasformato. Il borgo immaginario, dove Samuele ritrova ogni volta se stesso… Gabriele Burrini ha scritto dodici racconti pieni di incanto. Dove gli eventi quotidiani si sciolgono all'improvviso dalla legge del Tempo e mostrano la loro essenza nascosta, che è limpida e sorprendente come la scrittura che ce li restituisce.
(Vanna Brocca)

"Secolo d'Italia" (4 dicembre 2001)
Il discendente di un'antica dinastia di venditori di cappelli si mette in urto con la clientela rifiutandosi di commercializzare modelli all'ultima moda, irrispettosi della tradizione. E trascura sempre di più la bottega per realizzare, nel segreto di un laboratorio, il copricapo ideale, dalla forma perfetta, la più degna di «rappresentare lo sboccio dell'intelligenza», facendo «parlare nelle sue forme l'invisibile». A uno scrittore solitario appare all'improvviso nel silenzio di una mansarda l'ombra di un «folletto del fumo», estremo superstite di una razza in via di estinzione per la diffusione del riscaldamento centrale. «L'uomo – lamenta l'inaspettata apparizione – ha abolito il camino, dimenticando che con la contemplazione del focolare si celebrava una liturgia. Nel vivo trionfale delle fiamme sullo sfondo bruciato, sotto la volta di nero-fumo, l'uomo riceveva la consolazione del Tempo, toccava l'eredità della Terra, la saggezza che riconcilia il futuro al passato; oltre la fiamma, in quel nero delle pareti o nella profonda oscurità della cappa, l'uomo percepiva con religiosa attesa il mistero dell'origine del mondo». Costretto ad aggirarsi fra i tubi dei termosifoni, senza potersi più nutrire dei sani odori di legna alitati dai camini, il folletto chiede al suo ospite la grazia di poter annusare il fumo del suo sigaro e «ascoltare il suo silenzio».
Un correttore di bozze scrupoloso fino alla pignoleria e pedante fino al misticismo ha raccolto intorno a sé una squadra di tipografi che ne condividono il culto per la perfezione e ha elaborato una personalissima filosofia dei cliché, secondo cui «ogni opera d'arte che ha la sua paternità in terra, ha la sua maternità in cielo». Incaricato di curare durante il turno di notte una riedizione del Nuovo Testamento, raggiunge il culmine della perfezione correggendo le bozze del Vangelo di Giovanni. Una mattina lo troveranno con i suoi collaboratori «ancora lì, ognuno appisolato sul proprio banchetto, a sognar forse di quella loro Gerusalemme celeste ormai discesa in Terra: stampata per sempre come un cliché nell'animo di ciascuno di loro». Un recensore riceve da un vecchio compagno di università, che non rivede da quando, quasi trent'anni prima, aveva preparato con lui l'esame di storia delle religioni, un piccolo grande libro in cui, senza mai nominarlo, si parla, sotto forma di modeste parabole, della possibilità per l'uomo di redimersi in Dio. E, dopo averlo letto e meditato, si accorge di non aver fatto altro per sei lustri che cercare di eludere, con la politica, il giornalismo, la ricerca storica, le domande fondamentali dell'esistenza: quelle che si poneva poco più che adolescente, col suo amico dimenticato. Chiuderà il libro con un sottile rimorso e la premonizione che, spenta l'emozione del momento, continuerà la stessa vita: non ci sarà redenzione per lui. […]
Un Burrini fondamentalmente mistico, ma di un misticismo umile, discreto, quasi dimesso, che s'invera nelle piccole cose. Un Burrini tradizionalista, di una tradizione fatta anche di rimpianto per i riti del passato e di capacità di farne rivivere plasticamente i simboli: il fumo dei camini, la foggia demodes dei cappelli, la magica età della composizione a piombo, con quel patrimonio secolare di caratteri, di tecniche, di perizia artigianale, di bozze tirate e tormentate, resettato nel giro di pochi lustri dall'avvento dell'informatica. Un Burrini che scrive pregando e scrivendo prega una preghiera che è in fondo la contemplazione stessa dell'anima del mondo, perché lo scrittore «è il vero spettatore: chi scrive è la natura o la storia, che lasciano alfabeti d'immagini; lui li guarda, li legge, li invoca quasi con intensità di preghiera, infine li ama alla luce della chiaroveggenza». […]
(Enrico Nistri)

"Antroposofia" (n. 6/2001)
Da un episodio all'altro, questo libro di racconti ci porta nel cuore dell'anima dell'Europa, quella dei villaggi, apparentemente fuori dal tempo e dallo spazio […] Racconti simbolici con il profumo delle favole e della metafisica. Villaggi, che non ritroviamo negli atlanti, ma che riconosciamo perfettamente nella geografia interiore del nostro passato e i cui eventi appartengono al tempo della formazione. Lo stesso autore – giornalista, studioso di storia delle religioni e autore di saggi su temi filosofico-religiosi – intravisto nel corso del suo lavoro, somiglia a suo modo al calzolaio saggio che non è mai mancato negli shtetl. E così la Urmak di un qualche paese dell'Est, il borgo italiano o il villaggio ebraico ritrovano la loro realtà originaria di microcosmo sociale in cui la persona si incarna, trova le sue prime radici e compie le prime scelte rispetto al destino, per trasformarsi a poco a poco in un luogo della memoria e dell'interiorità dove si conservano quelle speciali immagini dell'infanzia che ci accompagneranno tutta la vita nel mondo e nel futuro.
"Racconti di redenzione", li definisce l'Autore, in realtà racconti di esperienze e di trasformazioni, di sensazioni elementari dell'agire del karma e della presenza dell'angelo nella vita umana. Finestre sulla vita raccontate con poetica semplicità e dolcezza che saranno apprezzate dagli adulti, ma che sapranno anche andare decisamente incontro, quasi senza parere, a quel bisogno di emozioni e di radici non connotate – come una patria solo interiore – tipico della preadolescenza e dell'adolescenza. […]
(Emanuela Portalupi)

"Visto" (22 febrraio 2002)
Amabili, fantasiosi, istruttivi, i racconti di Gabriele Burrini rielaborano e inventano leggende e delicate forme di saggezza popolare che incantano il lettore e lo conducono per mano in atmosfere fuori del tempo, eppure vicinissime a stati d'animo che proviamo noi tutti.
(G.C.)

"Il Mattino" (10 gennaio 2003)
L’osservazione della natura come metamorfosi dell’anima. Obiettivo centrato per Gabriele Burrini.Il suo nuovo lavoro, Il cappellaio di Urmak, è un piccolo gioiello pervaso di luce. Il libro di Burrini, giornalista e studioso di storia delle religioni, ha infatti come filo conduttore la scoperta dei momenti in cui la realtà quotidiana si libera dal peso dei fatti e si trasfigura in una nuova realtà, in un intenso percorso di metamorfosi dell’anima. In ogni racconto, che pur offre diversi livelli di lettura, si avverte la nostalgia della patria celeste intuita attraverso la geometria del volo delle rondini, la poesia del grano, gli occhi imploranti che si posano su una icona appena illuminata. E poi il ricordo di camini accesi, il profumo di legna odorosa che riscalda, la dolcezza degli affetti.Ed alla fine del percorso, lo scrittore diventa il vero spettatore, là dove chi scrive è la natura o la storia che lasciano alfabeti di immagini. Lui li guarda, li legge, infine li ama.

Recensioni al volume Il cappellaio di Urmak, di Gabriele Burrini, © Edilibri 2001




 

Home