IL CAPPELLAIO DI URMAK

Lo scrittore e l'ospite

Il profilo di quell'ombra si disegnava netto sulla parete della mansarda, eppure non c'era nulla tra la luce e il muro che potesse creare una simile forma. Per di più quell'ombra, che assomigliava vagamente a un bambino o a un alberello, si muoveva. Sì, proprio, si muoveva.
Sorpreso al suo tavolo, lo scrittore rimase assorto in quella strana visione.
Da una settimana ormai saliva in mansarda, l'aveva sistemata, ripulita e ne aveva fatto il suo studio. Ma non aveva notato nulla di strano, nulla del genere almeno.
«È permesso?», fu la voce che risuonò nello stretto spazio. Una voce bassa, atona, cadenzata, quasi di uno che parlasse una lingua straniera ma con la propria inflessione d'origine.
«Avanti!», rispose lo scrittore accostando il sigaro alle labbra ma con gli occhi alla porta, curioso di conoscere finalmente il proprietario di quell'ombra (chissà poi perché lo aveva associato al padrone della voce).
«Veramente sono già entrato!», si sentì dire con una certa ironia. «Non si spaventi e non guardi altrove: io sono l'ombra. Sono lieto che lei venga quassù a farmi compagnia e vorrei presentarmi».
Lo scrittore era rimasto a bocca aperta, non più sorpreso ma smarrito, indeciso se correr via per le scale come un pazzo o gridare a più non posso. Ma a quell'ora avrebbe certo svegliato tutti (che si sarebbero poi chiesti perché a mezzanotte fosse in mansarda e non nel suo letto e via dicendo…).
«Non faccia sciocchezze, conosco il suo segreto», aggiunse la figura della parete, restando immobile.
A quel punto lo scrittore fu vinto, quasi magnetizzato dalla curiosità che gli suscitava quello strano incontro, quasi abbagliato da un turbine d'impressioni. (Ma come avrebbe potuto raccontare di essere stato abbagliato da un'ombra?).
Riuscì solo a dire: «Chi sei?».
«Adesso va bene. Io sono… Be', io abito qui, mi è stata data questa mansarda e sono l'ospite del camino…», continuò la voce, con saccenteria.
«L'o-spi-te... del camino», ripeté stupito lo scrittore, sillabando la prima parola e scivolando di corsa sul resto.
«Ma sì. Almeno lo ero. Una volta, come ancora pochi di noi, abitavo nelle canne fumarie, nelle cappe e nei fumaioli delle case... Ma poi...», continuò rassegnata la voce, «avete tolto i camini e io mi sono trasferito in mansarda. Non sono un abusivo però», precisò l'ombra, «perché questa mansarda mi è stata affidata, io sono il legittimo inquilino».
«Cose dell'altro mondo», si lasciò sfuggire lo scrittore. «Ma non mi hai detto né cosa fai qui né cosa facevi nei camini».
«La ringrazio per avermelo chiesto, ho proprio bisogno di sfogarmi un po'. Innanzi tutto mi presento: il mio nome è Rauch. Sa, il mio ceppo era di origine tedesca e ci siamo trapiantati qui solo dopo la Grande Guerra... ma ormai tutti mi chiamano Fumo. Come le dicevo, ero l'ospite del camino, abitavo lì tra la fuliggine, di giorno nella rocca e nella gola, mentre di notte scendevo nella cappa, per andarmi a riposare poi sulla soglia del focolare, vicino ai fumacchi e alle ceneri. Bella vita! Che profumi, che mangiate!».
«Ma... di che cosa parli? Rubavi in cucina?», chiese lo scrittore.
«Macché! Parlo del fumo. Noi ci nutriamo di fumo... E quanto ce n'era e che varietà! Quel fragrante fumo di quercia, quello piccante di pino, ah! la resina dell'abete... e l'aroma leggero, quasi inglese, delle fascine di vite... Ogni mattina il bagno, un bel bagno in quel bianco fumo della prima legna, un così appannante tepore: quello che ci voleva dopo l'umidità della notte. Ma, scusi, lei ce l'ha in mente il camino?».
«Certo, Fumo, che me lo ricordo. D'inverno ci buttavamo anche i gusci di noce».
«Ah ah, che buoni, un odore così digestivo, una panacea: gusci di noce e bucce di mela. È un elisir, gliel'assicuro».
«Non lo nego, dipende dai punti di vista», aggiunse lo scrittore, ormai compreso nella sua funzione di strano interlocutore. «Dunque il tuo compito era assaporare il fumo, gustare l'aroma della legna bruciata...».
«Sì, ma non creda che noi vivessimo a ufo! Chi è secondo lei che fa tirare un camino? Ché, anche se un camino è artistico, decorato, strombato, se poi non ha un buon tiraggio a che vale? Siamo noi che convogliamo i vortici e le strisce di fumo, dirigiamo il tiraggio secondo il vento che soffia e impastiamo la fuliggine nel modo dovuto».
«E quando un camino non tira? Cos'è che non va?», chiese lo scrittore.
«Non va il padrone, che usa sempre la stessa legna insipida e secca, e allora noi glielo facciamo capire», ammonì questa volta l'ombra agitando un braccio (o un ramo, chissà). «A noi piace la legna odorosa e un po' umida, capito?».
«Sì, sì, adesso è chiaro», riprese lo scrittore. «Mi chiedo però cosa facevi d'estate, quando i camini non fumano...».
«Oh bella, mi meraviglio di lei, signor scrittore! Dov'è andata la sua fantasia? Noi d'estate ci ritiriamo nella rocca, tra le fessure ben arieggiate del fumaiolo o appena fuori, all'ombra dei puntuti comignoli, e lì cadiamo in letargo… Ogni anno ci addormentiamo la prima sera d'estate e ci lasciamo destare dal primo fumo dell'inverno, che è per noi quasi un rinascere alla vita».
«Ho capito tutto», disse lo scrittore, fattosi ancor più attento.
«Un momento», soggiunse l'altro. «Questo è solo un aspetto del nostro lavoro, ce n'è ancora un altro, un po' diverso. In realtà devo dire "c'era", perché anche questo… A ogni modo, il secondo mestiere era ascoltare i discorsi che si tenevano dinanzi al focolare: nei salotti dei nobili come nelle cucine della povera gente, noi stavamo lì ad ascoltare, a origliare le lunghe conversazioni serali, a bearci di quelle parole sempre uguali che si ripetevano davanti al fuoco. Non so spiegarmi, ma noi ne eravamo cullati…».
E mentre l'ombra si faceva immobile, quasi rapita nel ricordo di quella sua trascorsa condizione, lo scrittore inseguiva l'idea che gli era sorta dalla confessione di Fumo: l'uomo ha abolito il camino, dimenticando che con la contemplazione del focolare si celebrava una liturgia. Nel vivo trionfare delle fiamme sullo sfondo bruciato, sotto la volta di nerofumo, l'uomo riceveva la consolazione del Tempo, toccava l'eternità della Terra, la saggezza che riconcilia il futuro al passato; oltre la fiamma, in quel nero delle pareti o nella profonda oscurità della cappa l'uomo percepiva con religiosa attesa il mistero dell'origine del mondo. E lo adorava. Lo adorava come un bambino che incuriosito si sporge oltre la soglia del caminetto, per fissare con meraviglia quel pezzo di cielo che squarcia il cupo della gola: la canna fumaria gli pare allora una torre e il cielo la sua cima, qualcosa di simile a quel "budello", a quel sofferto pertugio che dall'inferno si apre la via che conduce al purgatorio.
«Mi dicevi dunque, Fumo, del tuo secondo lavoro…», riprese lo scrittore.
«Ah sì», disse l'ombra, come scuotendosi da un certo torpore.
«L'altro compito era ascoltare… ma non con malizia, bensì con piacere, perché quei discorsi erano per noi musica, armoniosa melodia. Così i discorsi della notte di Natale ci davano una musica solenne, un suono d'organo che ci accompagnava sulle volute del pastoso fumo di ciocco. E quella notte al centro dell'inverno era per noi la festa più grande: il giubilo della parola, del canto, del fumo... Che meraviglia! L'unico peso di questo secondo mestiere era che ogni tanto dovevamo scacciare via per la canna i "discorsi fumosi", che si annidavano sotto la cappa per creare sgradevoli echi, cattive risonanze alle buone parole e infilarsi in mezzo a loro per suscitare rimorsi e vecchi rancori. Capitava anche che questi discorsi fumosi fossero talvolta troppo invadenti, fitti o contorti (specialmente, chissà perché, quando si parlava delle eredità), e allora – non c'era niente da fare – il camino riboccava alla peggio».
L'ombra tacque. E lo scrittore ne approfittò, per l'incontenibile curiosità che destava quel racconto: «È straordinaria questa tua storia, Fumo, ma mi chiedo a questo punto quali sono ora le tue mansioni… ora che di camini se ne trovan ben pochi. Insomma, che cosa ci fai qui?».
«Dati i miei precedenti», proseguì la voce, «è naturale che io mi aggiri quassù, fra gli sfiatatoi delle caldaie e i tubi che corrono fra i solai, ma, vede, quel fumo d'una volta non c'è più: questo nuovo fumo è insipido, stantio, a volte veramente stomachevole, così, a farla breve, mi ha attirato quel buon fumo del suo sigaro toscano… Ah, com'è genuino, una vera manna per me che sto dimagrendo fra questi sfogatoi…».
«Questa è bella!», l'interruppe lo scrittore. «Non avevo mai ricevuto un elogio così sfacciato, e pensare che neanche mia moglie lo tollera sempre».
«Eh, cosa vuole, la signora certo non se ne intende. Glielo ripeto: è un profumo di legna di bosco, sapido e aspro al punto giusto».
«Insomma tu vorresti, Fumo, che io venissi quassù a fumare. Se ho ben capito. Ma, per quel tuo bisogno di ascoltar discorsi, come farai? Io, ti avverto, non vengo qui a parlar con qualcuno; anzi se, come dici, hai scoperto il mio segreto, avrai visto che vengo qui a meditare, a raccogliere i miei pensieri in assoluto silenzio…».
Lo scrittore guardò deciso l'ombra, che intanto si faceva china, quasi mesta, timorosa nel dare risposta.
«Vede, signor scrittore, per questo mio bisogno (come lei lo chiama) io son costretto ad ascoltare i discorsi delle case attraverso le condutture dei termosifoni… Purtroppo, c'è da dire, l'uomo è cambiato: io sento solo critiche e a me le critiche fanno male, mi bloccano il respiro… O se non ci sono le critiche, c'è la televisione; ma le confesso che a me la televisione non piace. Sono venuto dunque qui da lei… no, non è solo il fumo che le chiedo… mi sono dunque presentato a lei…».
L'ombra era visibilmente in imbarazzo, non riusciva a formulare la sua richiesta.
«Dici pure, Fumo», lo incoraggiò lo scrittore.
«Sì, ecco... Posso ascoltare il suo silenzio?».
Lo scrittore rimase per un po' assorto in quella domanda, poi disse: «Sì, certo, se ti fa piacere».
«La ringrazio», riprese Fumo. «Ci speravo tanto. Grazie anche per avermi ascoltato. Buona notte». E sparì.
Si era fatto tardi. Lo scrittore spense il toscano, si levò dal tavolo e uscì dalla mansarda. «Dev'essere cominciata per lui un'epoca nuova», concluse pensoso scendendo le scale. «Altrimenti non vedo che senso avrebbe quella richiesta: "Posso ascoltare il suo silenzio?"».

Racconto tratto dal volume Il cappellaio di Urmak, di Gabriele Burrini, © Edilibri 2001





 


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