IL CAMMINO DEI BODHISATTVA


Introduzione
di Gabriele Burrini

Il Bodhisattva e gli altri ideali di santità buddhisti
Come l’Occidente mediterraneo conobbe due grandi ideali di santità - l’Iniziato greco, che persegue un cammino spirituale fondato sulla conoscenza (gnosis), e il Giusto giudeo-cristiano, che si propone il perfezionamento morale sulla base dell’osservanza dei precetti - così anche l’India, nella sua lunga storia, conobbe notevoli ideali di santità. Che sorsero tutti da un medesimo humus: dall’immagine con cui il mondo indiano simboleggiò ripetutamente la condizione umana, la sua cecità, il suo dolore. Quest’immagine è la giungla, simbolo di sete e di mancanza di cibo: «All’uomo indolente», dice il Buddha, «la sete cresce come una liana, così l’uomo viene rinviato di vita in vita, come un monaco che qua e là cerchi frutti nella giungla» (Dhammapâda, 334).
La dimensione naturale dell’essere umano è, secondo la Dottrina buddhista (Dharma), quella di un essere smarrito e assetato che si dibatte nella giungla. Tutt’altro che libero, egli tenta ciecamente di aprirsi un varco nell’intrico della vegetazione: sperimenta molteplici vie di liberazione, sogna diversi ideali di purificazione e di salvezza.
Terra religiosa per antonomasia, l’India ha prodotto molte esemplari figure di «liberato» sotto l’onnipresente coltre dello yoga: l’induismo ha idealizzato il liberato in vita (jivanmukta), il devoto (bhakta), il seguace dei Tantra (shakta); il buddhismo ha celebrato il buddha, l’«Illuminato», poi, di volta in volta, il Piccolo Veicolo (Hinayana o Theravada) ha idealizzato il Santo (arhat) e il Buddha Solitario, il Grande Veicolo (Mahayana) ha magnificato il Bodhisattva, il Veicolo del Diamante (Vajrayana) tibetano ha celebrato il Perfetto (siddha).
IL SANTO. L’ideale di purità spirituale del Piccolo Veicolo si identifica con la figura del Santo o arhat: questa la meta dell’antico monaco buddhista. L’arhat è l’asceta solitario che percorre l’Ottuplice Sentiero: retta visione, retta rappresentazione, retta parola, retto agire, retto metodo di vita, retto sforzo, retta consapevolezza, retta concentrazione. Memore dei discorsi sulla caducità del mondo raccolti dalla viva voce del Buddha, l’asceta theravada aspira a ottenere la consapevolezza: il suo codice morale è non nuocere ad alcuno, la sua disciplina è purificare il pensiero con la concentrazione, la sua saggezza è comprendere che la realtà è caduca, dolorosa e impersonale. L’orizzonte ultimo di questo cammino dell’arhat è il raccoglimento nella rinuncia a idee e sensazioni (nirodhasamapatti), così riassunto dai testi: «Respingete, o monaci, l’idea di nirvana, di Illuminazione. Non fatevi idea del nirvana [...] l’idea diviene un legame [...]. Entrate, o Venerabili, nel raccoglimento della rinuncia a idee e sensazioni. L’asceta che entra in tale raccoglimento non ha altro da fare» (Anguttaranikaya, V, 324). Nel buddhismo del Piccolo Veicolo, dunque, la meta spirituale del devoto era la santità dell’arhat, il totale conseguimento della purità del pensare.
IL BUDDHA SOLITARIO. Accanto agli arhat la letteratura buddhista (in particolare mahayanica) pone un’altra categoria di Illuminati, i Buddha Solitari (pratyekabuddha, che le scritture canoniche ritraggono nelle sembianze del «saggio solitario come un rinoceronte». Tale figura è descritta con poetiche parole nella prima sezione del Sutta Nipata (pp. 27, 33): «Inerme fra tutti gli esseri viventi e non facendo loro alcun male, non abbia desiderio di figli o di amici, ma vada solitario come un rinoceronte. [...] Solo in vista dell’utile gli amici si frequentano e si coltivano; ben di rado, oggi, s’incontrano di quelli disinteressati: gli uomini impuri concepiscono solo il proprio interesse. Il saggio vada quindi solitario come un rinoceronte».
I testi mahayanici diversificano questi asceti in due categorie:
1. «coloro che vivono in gruppo» (vargacarin), i quali, dopo essere divenuti srotaapanna o sakrdagamin nell’epoca in cui un Buddha del passato insegnava la Dottrina, rinascono in un’epoca priva di Buddha e di Dottrina e diventano arhat;
2. «coloro che vivono solitari, simili a rinoceronti», i quali, dopo essersi dedicati alle pratiche ascetiche per cento grandi kalpa, raggiungono l’Illuminazione, senza convertire alcuno.
In sostanza i Buddha Solitari sorgono - come vuole il Mahavastu - ogni volta che il mondo è «vuoto di un Buddha»: ottengono l’Illuminazione senza l’aiuto di maestri, ma non proclamano al mondo le verità acquisite con l’Illuminazione.
IL BODHISATTVA. Gli ideali dell’arhat e del pratyekabuddha non escludono, però, che nel buddhismo antico fosse presente l’ideale del Bodhisattva, tuttavia questo nome designava allora soltanto il Buddha stesso nelle sue innumerevoli esistenze vissute prima di incarnarsi sotto le sembianze terrene di Siddharta. Non vi era altro Bodhisattva che il Buddha. Queste vite precedenti sono narrate in un’opera canonica, i Jataka, che eccellono nel magnificare le eterne virtù del Buddha: lo spirito di sacrificio, l’abnegazione, l’eroismo, da lui esercitati nelle varie incarnazioni umane e animali di Bodhisattva. Ogni pagina dei Jataka invita all’amorevolezza e alla compassione, virtù meravigliosamente espresse nella sintesi poetica dei Jataka fatta da Aryashura, autore di Storia della tigre e altre storie delle vite anteriori del Buddha.
Tipico esempio di abnegazione bodhisattvica è il primo racconto di questa raccolta. Esso narra che in una lontana vita il Bodhisattva rinacque presso una ricca famiglia di brahmani, che lo educò ai doveri religiosi, alle arti e alle scienze - nei quali il giovane si distinse per innate capacità. Era benigna la sorte verso questo figlio di brahmani, che godeva di ricchezze e di fama. Non contento, però, di questa vita, il Bodhisattva si ritirò nella giungla, vagando per i dirupi e meditando sul distacco dalle cose terrene, sull’amorevolezza verso le creature, sul silenzio interiore. Camminando un giorno con un suo discepolo di nome Ajita, scorse in fondo a un burrone una giovane tigre con i suoi piccoli: la tigre era debole e smunta dalla fame, guardava i suoi stessi figli come per cibarsene e li minacciava con forti ruggiti per allontanarli. E poiché - dice il racconto - i compassionevoli sopportano fermamente i propri dolori, anche se grandi, ma sono scossi dall’altrui dolore, anche se piccolo, il Bodhisattva chiese ad Ajita di procurare del cibo. E così il discepolo partì. Ma quando il Bodhisattva si accorse che la fame spingeva la tigre a tradire il suo stesso istinto materno, gli sorse questo pensiero: «A causa dell’attaccamento ai propri piaceri ogni essere umano è insensibile e indifferente all’altrui dolore. Ma se con il mio corpo - che pur è fragile, impuro, afflitto da dolori e malattie - posso impedire un delitto, una grave offesa all’idea della maternità, allora mi getterò io in questo dirupo e mi darò in pasto alla tigre». Presa dunque questa decisione di fare a ogni costo del bene ad altri, si lasciò cadere nel burrone. Ajita, al suo ritorno, ebbe solo parole di lode e di commozione per il giovane maestro ed esclamò: «Era davvero un Bodhisattva!».
Queste storie leggendarie del Buddha riferite alle sue vite precedenti di Bodhisattva venivano narrate - agli inizi dell’era volgare - dai monaci itineranti sia a scopo edificante sia per ingraziarsi il favore dei laici che, convertendosi sempre più numerosi al buddhismo, si accingevano a dargli una svolta radicale.
Alla corrente del Grande Veicolo, sorta appunto agli inizi dell’era volgare, parve che l’arhat theravada, seppure votato alla compassione, coltivasse in senso troppo esclusivistico il troncamento delle passioni e la fuga dalla successione delle rinascite: l’arhat, agli occhi dei pensatori mahayanici, pareva soltanto intento alla personale santificazione, mentre «il Bodhisattva non gioirà della beatitudine personale sorta dal raccoglimento, ma penserà compassionevolmente agli altri esseri e osserverà il suo voto originario di compiere il bene».
È vana secondo il Grande Veicolo la pretesa dell’arhat theravada di raggiungere il nirvana: la disciplina theravada sradica, infatti, a dire dei mahayanici, soltanto le passioni, ma lascia intatti gli ostacoli conoscitivi - che il Bodhisattva invece realmente rimuove nel suo cammino verso l’onniscienza, animato dall’intento di apportare la felicità a tutti gli esseri. Per questo i testi dichiarano che, più che l’arhat che medita la sua personale liberazione, le entità spirituali amano il giovane Bodhisattva che si è appena votato al suo cammino di liberazione, perché sarà lui che darà nuova vita alla stirpe dei Buddha (Kashyapaparivarta, 83).
In sostanza, secondo il Grande Veicolo, l’Illuminazione ottenuta dagli arhat non è la meta finale, è solo una condizione intermedia, uno stato di trance in cui il Santo è immerso per un lunghissimo periodo di tempo che può durare alcuni eoni; ma al termine di questo periodo egli sarà destato dall’esortazione di un Buddha a entrare nel Mahayana, l’unico Veicolo che conduca alla salvezza. Haribhadra, un grande commentatore di testi buddhisti, scrisse: «Pur avendo ottenuto i due tipi di nirvana, i Santi rimangono esseri "sprovveduti", in quanto privi di saggezza e di compassione. Raggiungono il nirvana solo con il decadimento delle forze vitali [...]. Dopo la morte vengono meno per essi le rinascite nelle tre Sfere di esistenza e rinascono nella sfera immacolata dei puri Campi buddhici, entro i calici dei fiori di loto. In seguito il Buddha Amitabha e gli altri Buddha li destano affinché essi apprendano a rimuovere l’innata ignoranza. Dopo di ciò i Santi ottengono il Pensiero d’Illuminazione (bodhicitta) e, sebbene dimorino in uno stato di liberazione, agiscono quaggiù come se andassero incontro a un tormentato destino. Gradualmente, dopo aver accumulato tutti i meriti per l’Illuminazione, diventano maestri del mondo. Così è detto nelle Scritture. [...] Perciò è scritto nel Lankavatara: "O Mahamati, non c’è salvezza per i seguaci del Piccolo Veicolo: essi coronano la loro attività nel Grande Veicolo"».
Chi è dunque il Bodhisattva? È colui che ha come essere (sattva) l’Illuminazione (bodhi) e che si offre di vivere vite su vite e di sperimentare tutti i destini, per portare se stesso e gli altri all’Illuminazione. I Bodhisattva si distinguono in:
1. Bodhisattva comuni, che vivono come santi asceti in un corpo fisico sottomesso al samsara. Dedicandosi alla pratica meditativa e alla compassione verso le creature, essi ascendono dalla prima alla settima Terra spirituale. Sono considerati tali tutti i seguaci del Grande Veicolo, ma in particolar modo i filosofi Nagarjuna, Asanga, Vasubandhu, lo stesso Shantideva, il patriarca cinese Hiuan-tsang.
2. Bodhisattva celesti, detti «Grandi esseri» (Mahasattva), che dimorano nelle ultime tre Terre spirituali, dall’ottava alla decima. Essi non possiedono un corpo fisico, ma rivestono «il corpo spirituale della Dottrina», grazie al quale possono discendere a livello fisico assumendo corpi materiali o «corpi di metamorfosi» (nirmanakaya). Questi Bodhisattva celesti hanno il compito di soccorrere gli esseri senzienti durante il sonno o la meditazione, ispirando loro pensieri beati.
IL PERFETTO. Troppo peculiare è l’ideale tantrico buddhista del siddha perché ci se ne occupi in questa sede. Ricordiamo soltanto le concise parole di E. Conze: «Il Tantra si distaccava dal primo Mahayana nella sua definizione dello scopo e del tipo umano ideale, oltre che nei metodi d’insegnamento. La meta era sempre il raggiungimento della condizione di Buddha, ma non più in un remoto futuro, dopo eoni ed eoni, ma subito, "in questo stesso corpo", "nell’atto di un unico pensiero", conseguita miracolosamente mediante una via nuova, facile e veloce. Il Santo ideale era il siddha, o mago, che tuttavia aveva una certa somiglianza con ciò che si diceva essere il Bodhisattva dopo l’ottava tappa, con tutti i suoi meravigliosi poteri completamente sviluppati».
Shantideva e lo Shikshasamuccaya
Si sa poco di concreto sulla vita di Shantideva, diverse invece le leggende tramandateci su di lui dagli storici tibetani. Vissuto tra la fine del settimo e la prima metà dell’ottavo secolo, nacque come principe ereditario del re di Surara (nell’odierno Gujarat). Secondo lo storico tibetano Buston, gli apparve in sogno il Bodhisattva celeste Mañjushri, che gli si presentò come «amico spirituale» (kalyanamitra) e lo dissuase dal salire sul trono. Secondo un altro storico tibetano, Taranatha, fu invece la dea Tara a comparirgli in sogno sotte le fattezze della madre, per indurlo al grande passo. Ciò ha fatto pensare che la madre di Shantideva fosse di religione buddhista.
Dopo aver rinunciato al trono, il giovane principe seguì per dodici anni un maestro, che lo educò alla concentrazione su Mañjushri.
Nei successivi dodici anni (secondo qualche fonte) si diede invece alla vita militare, ma in seguito tornò alla pratica religiosa ed entrò nel monastero di Nalanda (non lontano dalla capitale del Magadha, Rajagrha). Accusato dai confratelli di non dimostrarsi un monaco zelante, diede prova di conoscenza dei testi sacri (sutra), recitando la sua grande opera poetica, il Bodhicaryavatara. Era giunto alla strofa 35 del nono capitolo, quando si rese invisibile per comprovare la sua santità.
A quel punto lasciò Nalanda e si trasferì nel sud, dove lo raggiunsero due monaci e tre eruditi, interessati alle sue opere. Si dice che tornarono indietro con lo Shikshamuccaya («Raccolta di istruzioni») e il Sutrasamuccaya («Raccolta di testi sacri», forse non attribuibile a Shantideva).
Lo Shikshasamuccaya è un’opera composita scritta in sanscrito. Composita sia perché si presenta come un lungo commento a ventisette karika (strofe), redatte dallo stesso Shantideva sia perché l’intero testo è un’antologia, un ininterrotto susseguirsi di citazioni tratte da un centinaio di sutra, per lo più appartenenti alla letteratura del Grande Veicolo e, non in pochi casi, a testi di cui con i secoli si è smarrito l’originale sanscrito, conservandosi solo la versione cinese o tibetana.
Benché la parte scritta da Shantideva ammonti a circa un cinque per cento del testo, ciò non toglie che esso abbia una sua coerente e precipua struttura. Lo Shikshamuccaya è infatti un’opera di disciplina e dottrina mahayanica che ruota sul cammino evolutivo del Bodhisattva, sulle sei fondamentali virtù o Perfezioni (paramita) che egli sviluppa di vita in vita, di eone in eone, lungo l’ascesa delle Terre spirituali (bhumi). In particolare il capitolo primo si occupa della Perfezione del Dono, i capitoli dal secondo al settimo della Perfezione della Moralità, dall’ottavo al nono della Perfezione della Pazienza, i capitoli decimo e sedicesimo (in parte) della Perfezione dell’Energia, i capitoli undicesimo, dodicesimo e dal diciassettesimo al diciannovesimo della Perfezione della Meditazione, infine i capitoli dal tredicesimo al sedicesimo (in parte) della Perfezione della Saggezza.
Lo Shikshamuccaya si può inoltre ripartire in quattro unità tematiche: i fogli del manoscritto 19-36 trattano del Dono della propria persona, delle proprie soddisfazioni e dei meriti; i fogli 37-156 della loro protezione; i fogli 157-250 della loro purificazione (shuddhi); i fogli 251-313 del loro accrescimento (vardhana). Ci si protegge evitando il male, grazie al soccorso degli amici spirituali e al conforto dei sutra; esercitando l’attenzione consapevole, moderando il linguaggio, adottando salutari misure per il benessere del corpo, accettando senza possedere, servendo il mondo. Ci si purifica eliminando il peccato, dominando le passioni, ascoltando la Dottrina, vivendo in disparte come se si fosse ritirati nella foresta, attenendosi alla dottrina del Vuoto. Ci si accresce, infine, con lo zelo per la disciplina, la compassione, il trasferimento dei meriti, il culto del Tathagata, prendendo su di sé il peso del mondo.
Riguardo alle citazioni dai sutra riportate da Shantideva ho rimandato in nota alle traduzioni già esistenti nelle lingue europee, laddove esse mi erano accessibili.

Introduzione di Gabriele Burrini a Il cammino del Bodhisattva, di Santideva, � Edilibri 2004

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