La spiritualità di san Giuseppe Cottolengo

 

Prefazione
di Carlo Ossola

Di fronte all’«urgere» di una carità che ridusse la parola all’essenziale (secondo il dettato evangelico di Mt 5, 37; e ancora di Mt 7, 21 ss. e Lc 6, 46), che senso può avere una pur breve prefazione? Soltanto quello di un primo lettore che suggerisce a quelli che verranno i frutti ch’egli ha tratto dai due meditati saggi di don Elio Mo e di don Lino Piano.
A lettura ultimata, in primo piano non si eleva la figura discreta e sollecita del Santo, ma l’epopea, di dolore e di Grazia, dei suoi poveri: «Poveri, poveri, diceva tante volte, sono la pupilla di Gesù Cristo, sono i suoi rappresentanti»; «Se voi pensaste e comprendeste bene qual personaggio rappresentano i poveri, di continuo li servireste in ginocchio»; «I più disgraziati sono le gioie, le perle della Piccola Casa». È la feconda eredità del modello francescano, che il Cottolengo coltiva e diffonde nella Piccola Casa, la suprema quiete di chi non ha più nulla ed è dunque in comunione con chi non ha nulla: servendo «quietamente nel vostro spirito in Domino».
Questa serenità («il tutto disponga in Domino con placidezza e tranquillità») non è solo il seme ascetico del “distacco” dai beni e dal mondo, ma è nel suo fondo l’aderire alla trasparenza dell’essenziale senza più l’ingombro delle cose, dei pensieri, di ciò che da noi è prodotto, per fare spazio a ciò che in noi può essere accolto, abbandonata anche la cura del piacere a Dio: «era massima del servo di Dio – secondo la testimonianza di suor Clara Massola – che nelle cose anche di pietà bisogna andar alla buona, con semplicità e umiltà, e non andar tanto avanti nelle questioni, od assottigliar le cose per domandar consigli»). Stringente è la meditazione che il santo scrive al riguardo: «Ma ricordatevi, umanissimi che m’onorate, che questo amore verso Dio non consiste no, come purtroppo molti tra il cristianesimo si danno follemente a credere, in una mozion del cuore, in qualche tenero affetto, ovvero in qualche divota lagrima di compunzion che dagli occhi giunga a versarsi, in certe gustose velleità, ovver certi languidi desiderj, […] dappoiché queste cose tutte possono direi quasi chiamarsi semplici fronde dei più puri fiori di carità, ma il tronco, oppur l’albero della vera carità consiste nel darsi impegno di servir il Signore, come parlò chiaro il pontefice san Gregorio con queste voci: “Signum amoris non est in affectione animae, sed in studio bonae operationis”».
Tale essenzialità non è nemmeno il ridurre tutto alle opere; al contrario esige semi di contemplazione tali che sola la minima delle opere sia il puro frutto della remissione alla Provvidenza. Non finiva forse così, alla lettera in «un bicchier d’acqua», la più terribile delle dichiarazioni del Figlio dell’Uomo sui suoi discepoli? Quel paragrafo di Matteo che comincia con la spada e la divisione del figlio dal padre, della figlia dalla madre (Mt 10, 34) non termina forse placato in qualche goccia di semplice acqua: «E chi avrà dato anche solo un bicchiere di acqua fresca a uno di questi piccoli, perché è mio discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa» (Mt 10, 42)?
Il XIX fu il secolo di masse sradicate dai campi e portate a inurbarsi sotto il peso della produzione industriale: prolungamenti delle macchine, gli operai persero il ritmo perenne della natura per quello – più “stretto” – dei telai, dei forni, delle catene. Ci fu chi salutò quelle macchine come progresso e, con Smiles, celebrò il tempo del “self-help”; altri videro nella privazione dei mezzi di produzione il drammatico alienarsi della libertà umana (Marx); altri cercarono con la solidarietà dei movimenti cooperativi e sindacali di ridurre quello spossessamento. Fu rimproverato alla Chiesa di aver agito – nelle sue migliori forze – come “ruota di scorta” all’avanzare del capitalismo, raddrizzando qualcuna delle più gravi ingiustizie lasciate sul terreno dal trionfo del profitto.
Il Cottolengo superò radicalmente la lettura “sociale” della povertà per fondarne una dimensione ontologica: tutti siamo e, più ancora, dobbiamo divenire poveri, raggiungere l’ultima povertà, quella della Passione, perché una mano si apra nel gesto più antico di accoglienza: «Gesù morto in croce per amor mio, prenditi la fronte ed il cuor mio». Tutti coloro che hanno scelto la povertà più radicale, essenziale, l’hanno vissuta sino all’agone – azione e lotta ultima con noi stessi e la morte – della Passione, dalle Stimmate di san Francesco al Cottolengo.
Mistica e azione si compendiano in quell’estrema contemplazione, della quale darà prova un martire del nostro tempo, il Segretario generale dell’ONU Dag Hammarskjöld, morto in Katanga nel settembre 1971, il quale lasciò scritto nel suo diario: «Che senso ha alla fine la parola “sacrificio”? Ovvero anche la parola “dono”? Chi non ha nulla non può dare nulla. Il dono è di Dio a Dio»; «Io sono il recipiente. La bevanda è Dio. E Dio è l’assetato» (Tracce di cammino).
Di quella sete è la nostra povertà.


Prefazione di Carlo Ossola al volume La spiritualitą di san Giuseppe Cottolengo, © Edilibri 2006


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